HIKIKOMORI

HIKIKOMORI
by Holger Schober
director Ingeborg Waldherr
set design, costumes, video Silvio Motta
with Manuel Schunter
Peroni
Wonderland Festival

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„Hikikomori“ –  Ein Hightech- Beckett von I.Waldherr

Die Inszenierung des Ein – Personen – Stückes sieht H. wie einen absurden „Helden“ Becketts in seinem leisen Dialog zwischen Innen -, Außen- und  Fantasiewelt.

H. ist wie ein moderner Verwandter des alten Krapp, der sich im ritualisierten Spiel mit den Tonspulen seines Lebens versichert wie auch der Tatsache, dass in seinem Leben irgendetwas von Intensität und Bedeutung war; H. ist wie ein Krapp unserer technologischen Zeit, ein besessener Zocker, um der inneren Einsamkeit, den absurden Anforderungen an einen jungen Erwachsenen, dem zufälligen Verlauf von Zeit zu entgehen. Abgeschottet regridiert er im Kosmos dieser Pseudosphäre zu einem traurigen „Kaspar Hauser“, dem die Welt und seine eigenen Wahrnehmungen abhanden gekommen sind; Sommer, Winter, Liebe, Tanz sind nur noch Worte für Erinnerungs- Glück- ; Krapp Junior 2010 bedient die  Außenwelt – technisch  ausgefeilt in jeder Form von Perversion und Beziehungslosigkeit – bequem auf Knopfdruck. Kontakt und Nähe zum Ein – und Ausschalten, Beziehungs- Null- Qualität in illustrem Hightech- Format. Technisch faszinierend und sinnlich tot.

H. verbarrikadiert sich vor den leibhaftigen Menschen,  um sich nicht mehr auseinandersetzen zu müssen. Beziehung ist eine Null- Aktie.

Doch nicht einmal die Nabelschnur zu seiner Mutter ist durchtrennt. Vielmehr lebt er wie ein abhängig- trotziges, pubertierendes Kind eine Existenz reinen Protestes  – im absurden Dialog – mit dem mütterlichen und globalen „Du musst!“ und zeigt dabei die seelischen Wunden eines klinischen Außenseiters. Der Fall H.: Sein konsequentes „Nein!  – das will ich nicht!“ als skurrile Szenennummern wie Röntgenaufnahmen  eines schwer erkrankten Patienten.

„Früher war alles anders“ ist sein Refrain, der die Unveränderbarkeit der Gegenwart und seine persönliche Sackgasse besiegeln, alles unveränderlich machen soll.

Das rothaarige Mädchen ist die einzige Erscheinung in seinem medial abgeschlossenen Fluchtraum, um die er wie ein Planet im Sonnensystem kreist; die Sonne, die ihn wärmt, auf dessen Aufgang er wartet, um den Jahren und Tagen e i n e n echten Moment abzugewinnen und das Träumen nicht ganz aufzugeben.  Alles andere ist Bilanz der Enttäuschungen…

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Hikikomori

Als Hikikomori (jap. ひきこもり, 引き籠もり oder 引き篭り, „sich einschließen; gesellschaftlicher Rückzug“) werden in Japan Menschen bezeichnet, die sich freiwillig in ihrer Wohnung oder ihrem Zimmer einschließen und den Kontakt zur Gesellschaft auf ein Minimum reduzieren. Der Begriff bezieht sich sowohl auf das soziologische Phänomen als auch auf die Betroffenen selbst, bei denen die Merkmale sehr unterschiedlich ausgeprägt sein können.

Obwohl akuter gesellschaftlicher Rückzug in Japan Jungen und Mädchen gleichermaßen zu betreffen scheint, sind es überwiegend männliche Personen, die mit ihrem Verhalten Besorgnis oder Aufmerksamkeit erregen. In Familien mit mehreren Kindern ist es am häufigsten der älteste Sohn.

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Hikikomori (ひきこもり o 引き篭り)

letteralmente «stare in disparte isolarsi» è un termine giapponese che si riferisce a coloro che hanno scelto di ritirarsi dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento a causa di vari fattori personali e sociali delle loro vite. Il termine si riferisce sia al fenomeno sociale in generale che a coloro che appartengono a questo gruppo sociale.

Il Ministero della Salute giapponese definisce hikikomori coloro che si rifiutano di lasciare le proprie abitazioni e lì si isolano per un periodo che supera i sei mesi. Mentre il livello del fenomeno varia su una base individuale, nei casi più estremi alcune persone rimangono isolate per anni o anche decenni. Spesso gli hikikomori iniziano rifiutandosi di andare a scuola: questi ultimi in

giapponese sono definiti futōkō (不登校).

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“HIKIKOMORI” – un lavoro teatrale di H.Schober


Holger Schober (1. Oktober 1976 in Graz) ist ein österreichischer Autor, Schauspieler und Regisseur.

Nach einem Germanistik- und Anglistikstudium absolvierte er die Schauspielausbildung am Wiener Max-Reinhardt-Seminar. Weiters hat er eine Ausbildung als Kulturmanager vom Institut für Kulturkonzepte in Wien. Seit 1997 schreibt Schober Drehbücher und Stücke für Film, Fernsehen (Mitten im 8en) und Bühne. Von 2005 bis 2007 war er im künstlerischen Leitungsteam des Theater an der Gumpendorfer Straße. 2009 übernahm er die künstlerische Leitung der Sparte Theater für junges Publikum am Landestheater Linz.

Holger Schober scrive:

Non ho scritto un lavoro sul Giappone. Ho scritto un lavoro su un problema globale: infatti il rifiuto di partecipare alla vita, il dire mi tolgo dalla normalità quotidiana è una forma di protesta giovanile contro il mondo in cui viviamo, che va presa molto sul serio. Così internet e i compagni di chatting diventano il solo ed unico legame col mondo circostante.“

H. è uno scolaro di questo tipo che si è ritirato dalla società e ha tagliato tutti i ponti con il mondo, incapsulandosi nella dimensione dei media digitali. Ogni suo tentativo precedente di trovare delle certezze e una vera comprensione nella famiglia, di costruire salde amicizie nella scuola, nello sport e nel suo ambiente è fallito, infine non ha trovato nessuno che volesse ascoltarlo quando ne aveva bisogno.

“Ho cercato tante volte di far sì che i miei compagni mi considerassero, ma non mi è riuscito … il perché non lo so. Quando si è giovani conta solo il momento presente … e nei momenti importanti la mia voce era troppo bassa. Nessuno mi ha sentito … nessuno ha voluto darmi ascolto … e così sono rimasto solo.“

Anche il suo desiderio di tenerezza e di scambio affettivo con una ragazza sono andati a vuoto. Ora, invece di rapporti reali, egli cerca il contatto attraverso i media, il chat. La tecnica gli sostituisce virtualmente la vita, le persone, lʼamore.

La madre e la sorella tuttavia tentano con tenacia e comprensione di abbattere i “muri“ di H., lo invitano a comportarsi da ragazzo normale, a lavorare per diventare un uomo di valore. Ma gli approcci delle due donne lo portano a ritirarsi ancora di più.

La messa in scena di questo assolo vuole concentrarsi intensamente ed esclusivamente sul sommesso intimo dialogo del ragazzo H. col suo mondo virtuale, nel quale egli ci fa pensare ad un giovane parente del classico vecchio Krapp di Samuel Beckett con i suoi nastri (Samuel Beckett “Lʼultimo nastro“).

Ermeticamente chiuso e solo nel cosmo di uno pseudo mondo privo di rapporti, H. domina il suo regno personale e ne è lʼunico centro.

Il mondo gli è sfuggito di mano. Così si protegge dalle pretese del suo ambiente, abbandonandosi alle fantasie del chat con lʼimmaginario compagno Rosebud.

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Appunti di regia di Ingeborg Waldherr

“Hikikomori” – Un Beckett High Tech

La messa in scena del monologo “Hikikomori” individua H. come un assurdo “eroe” beckettiano nel suo silenzioso dialogo tra un mondo interiore , esteriore e fantastico. H. è come un parente moderno del vecchio Krapp, che garantisce (verifica) la sua esistenza attraverso il gioco rituale del riavvolgimento delle registrazioni della sua vita ed anche grazie al dato di fatto che nella sua realtà c’é stato un qualcosa che ha avuto senso ed intensità.

H. è come un Krapp del nostro mondo tecnologico, un giocatore d’azzardo ossessionato dalla solitudine interiore, dalle richieste assurde ad un giovane adulto, dalla fuga dallo scorrere accidentale del tempo. Isolato nel cosmo di questa pseudo condizione regredisce ad un triste “Kaspar Hauser”, al quale è sfuggito il mondo e le sue percezioni: estate, inverno, amore, danza sono solo parole di ricordo, parole di fortuna. Il giovane Krapp del 2010 controlla il mondo esterno, provvisto tecnicamente di ogni forma di perversione e d’estraneità, comodamente a portata di mano tramite un tasto. Contatto e vicinanza a disposizione di un on/off, rapporti qualitativi nulli in un illustre formato high-tech. Tecnicamente affascinante e sensorialmente morto. H. si barrica di fronte alle persone reali per non dover più confrontarsi. I rapporti sono un atto inesistente. Eppure nemmeno il cordone ombelicale con sua madre è stato tagliato. Al contrario, come un figlio dipendente, testardo e adolescenziale, vive una vita di pura protesta – in un dialogo assurdo – del materno e totalizzante “Tu devi!” mostrando così le sue ferite psicologiche tipiche di un outsider patologico. Il caso H.: il suo coerente “No! – Non lo voglio! ” come una scena bizzarra, radiografia di un paziente gravemente malato.

“Una volta, tutto era diverso” è il suo ritornello che sigilla l’immutabilità del presente e la sua personale situazione di stallo e che dovrebbe rendere tutto inamovibile. La ragazza dai capelli rossi è l’unica apparizione nel suo spazio mediatico isolato di fuga, attorno alla quale ruota come un pianeta nel sistema solare, è il sole che lo scalda, è il suo sorgere che sta aspettando per strappare finalmente un momento reale ai giorni e agli anni e per non rinunciare completamente ai sogni. Tutto il resto è un bilancio di delusioni …

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Appunti di scenografia di Silvio Motta

Una tenda, un’isola, una zattera, l’utero primordiale, una porta per segnare un goal, un orecchio gigantesco, la realtà e la fantasia di H. si sovrappongono mediati da uno schermo del computer.

Un piano inclinato e una tenda per proiezioni video, questa è l’idea portante della scenografia di Hikikomori.

Mi interessa la possibilità di stravolgere completamente lo spazio dove vive H. quasi diventasse un ambiente mentale o un luogo “altro”, a tratti poetico o spietatamente astratto, per certi versi anche affascinante, dove il nostro personaggio si rifugia o evade per lʼimpossibilità di andare oltre il proprio malessere.

Tecnicamente si tratta di realizzare una tenda con una struttura portante interna in pvc elastico montati su di un piano inclinato che consentano sia un retro-proiezione che una proiezione frontale dei video.

Il lavoro degli studenti riguarda  l’aspetto di realizzazione dello spazio scenico e dei video linguaggio e rappresentazione della dimensione virtuale e fantastica di H.: sará molto interessante scoprire le fantasie multimedia delle nuove generazioni in relazione alla contemporaneità di questo spettacolo.

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Badischer Zeitung

Freitag, 18. Oktober 2013

Kaspar Hauser vor dem Computer

Holger Schobers Stück “Hikikomori” zu Gast in Freiburg.

Angedockt ans World Wide Web und doch Kasper Hauser in selbstgewählter Isolationshaft: Die Zivilisationskrankheit Hikikomori (“sich einschließen”) betrifft allein in Japan geschätzte eine Million meist männliche Jugendliche. Auch in den USA und Nordeuropa ist das Phänomen verbreitet, hierzulande wird es als Sozialphobie diagnostiziert. Die Grundsymptome decken sich: Junge Menschen, die sich jeder gesellschaftlichen Teilhabe verweigern und sich stattdessen monate- oder gar jahrelang ins eigene Zimmer der elterlichen Wohnung verbarrikadieren, wobei das Internet oft als einziger Außenkontakt fungiert. Eine Art sozialer Hungerstreik, dessen Ursachen in einem fatalen Kreislauf aus Erwartungsdruck, Versagensangst und Mobbing liegen und dessen Heilung ohne psychologische Hilfe kaum gelingt.

“Hikikomori” heißt auch das Jugendstück des 1976 in Graz geborenen Dramatikers Holger Schober, das 2006 für den Deutschen Jugendtheaterpreis nominiert wurde und seitdem in Theatern von Berlin bis Bamberg gespielt wird. Jetzt ist eine vom Schulamt und dem Aktionskreis Suchtprophylaxe Freiburg geförderte Inszenierung auf ihrer Tour durch Baden-Württemberg auch als Gastspiel im Theater Freiburg zu sehen (Regie: Ingeborg Waldherr). Auf der Bühne des Kleinen Hauses herrscht Enge und Leere zugleich: beklemmend der Blick in die aufgeschnittene Stoffkuppel mit schräger Holzrampe, drum herum ein in blaues Neonlicht getauchtes Nichts (Bühne, Kostüm, Video: Silvio Motta). Eine sterile Eremitage, aus deren Tiefe ein junger Mann kriecht, sein Werwolfgebrüll vom Schlagzeuger am Rand mit unheimlicher Soundcollage untermalt (Musik: Konrad Wiemann).

Das wirkt komisch und verstörend zugleich, weiß man doch aus dem Programmheft, dass H. seit acht Jahren sein Zimmer nicht mehr verlassen hat. “Du musst was Ordentliches essen! Du musst dich waschen! Du musst da rauskommen!”, so die verzweifelten Rufe der Mutter aus dem Off, während er wie ein Raubtier durch seine dunkle Höhle tigert. Denn H. muss gar nichts mehr, H. hat sich selbst aus dem Spiel genommen.

Was folgt, ist ein pulsierender 70-minütiger Monolog, der die Zuschauer zu Zaungästen eines Kopflabyrinths ohne Ausgang macht. Ein schonungsloses Selbstgespräch, das jugendliche Ich-Krisen facettenreich in ihrer gesellschaftlichen Symptomatik zelebriert. Oder wie es H. in seinen klaren Momenten formuliert: “Ich habe alles, was ich brauche. Ich lebe in meinem Zimmer mit mir selbst und das ist schon einer zu viel.” Ein Albtraum, in dessen fiebriger Selbstbezogenheit die Inszenierung doch kurzweilig den Spagat zwischen Tragik und Komik, Wahn und Analyse hält.

Dabei gibt Manuel Schunter seinen H. so leidenschaftlich, sympathisch und körperstark (Choreographie: Dagny Borsdorf) als schillernde Gestalt zwischen Opfer- und Heldentum, dass die Identifikation mühelos funktioniert. Denn wer kennt das nicht: Keinen Bock auf nichts, schon gar nicht auf die anderen? In aberwitzigen Zickzackwendungen verheddern sich seine Gedanken in den immergleichen Loops zwischen Erinnerung und Fantasie, wenn er nicht gerade schläft, tanzt oder tobt. Doch dann findet bei vorsichtigen Chatflirts mit Rosebud eine Stimme von Außerhalb in seinen Kokon. Vielleicht tut sich da ja eine Türe auf.

Waldherrs Inszenierung setzt diesen inneren Kampf grandios in Szene – und vernachlässigt sein Begleitprogramm, die Online-Sucht. Nur wenige Projektionen werden auf die Stoffkuppel geworfen. Dabei müsste H.’s Zimmer bersten von Bildern, Musik und Geräuschen aus dem Computer, die jede innere Stimme überdröhnen. In dieser Kombination wird Hikikomori erst richtig schwierig. Ein intensives Theatererlebnis ist dieses Jugendstück aber allemal.

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